Dark Shadows

Regia: Tim Burton
Anno: 2012
Voto: 7/10

Un Tim Burton maturo ed un Johnny Depp molto ironico, nel remake dell’epocale soap opera anni ’70.

E’ dai tempi di Beetlejuice – Spiritello porcello (1988) o, meglio ancora, da Mars Attacks! del 1996, che Burton non concentrava tanta ironia e tanta sottile critica (compiaciuta) e culto (nostalgico) degli anni ’60 (e ’70) e dei suoi miti.

Al centro è ancora la famiglia (figli disadattati, genitori alcoolizzati, farmacodipendenti, nevrotici, entropici, surreali) e la società piccolo-borghese americana (la stessa che abitava le casette tutte uguali e dagli improbabili colori pastello di  Edward mani di forbice, sempre di Burton e del 1990).

Eppure rieccolo con Dark Shadows, titolo che è quello della soap opera ABC andata in onda fra il 1966 ed il 1971, partita come uno sceneggiato a puntate qualunque e virato verso il soprannaturale in maniera tanto difforme da farne un mai visto prima nella programmazione diurna statunitense.

La storia ha inizio con una voce narrante dal linguaggio aulico alla Edgar Allan Poe (ho ancora ben chiaro nella memoria lo stesso – improvvido – linguaggio, spacciato per aulico in The raven, James McTeigue, 2012) ed una scena di porto e di nave in notturna che richiama anche il Bram Stoker’s Dracula di Coppola (1992) e di rimando al Nosferatu, il principe della notte di Herzog (1978) (e di rimando ad ogni cult vampiresco).

Dark Shadows, infatti, è come un vecchio baule polveroso, ritrovato in soffitta e pieno di vecchie cianfrusaglie cinematografiche, ritagli di film cult e di B-movies, pezzettini di memoria dell’infanzia dei più ed una caccia al tesoro (o meglio alla citazione cinematografica) per cinefili. I rimandi cinematografici sono così tanti, che quasi mi dispiaccio di averne individuati solo alcuni.

Un albero sullo sfondo della scogliera dalla quale salterà verso l’oblio la futura sposa di Barnabas Collins (Johnny Depp, che con la sola presenza è pura autoreferenzialità burtoniana), protagonista (da vivo e da non morto) della storia, ricorda quello che si stagliava sulle rovine di Tara in Via col vento (Victor Fleming, 1939), se non altri centinaia di alberi altrettanto contorti ed in altrettanti film horror gotici.

Pure Barnabas che alza le mani al cielo, contro alla furia della tempesta ed alla spuma del mare sferzante, fa venire in mente Titanic (James Cameron, 1997) e DiCaprio e la Winslet sulla prua dello sfortunato (e non proprio) inaffondabile transatlantico.

La scena in cui i paesani di Collinsport (poco ridente cittadina ittica, fondata dalla famiglia Collins nella metà del XVIII secolo) raggiungono la magione in cui si nasconde Barnabas (ormai tramutato in vampiro per puro dispetto) armati di torce e di forconi riporta alla mente (una qualsiasi versione di) Frankenstein o una scena analoga del più recente Intervista col vampiro (Neil Jordan, 1994).

La differenza sostanziale è che Louis de Pointe du Lac (il Brad  Pitt vampiro che si fa, appunto, intervistare) è trasformato in vampiro dal cinico Lestat (un indimenticabile Tom Cruise) per amore e non per mera vendetta, come succede a Barnabas quando decide di ignorare l’amore di Angelique Bouchard (l’Eva Green che aveva esordito con The Dreamers di Bernardo Bertolucci, nel 2003), domestica e strega potentissima.
E’ lei che induce la fidanzata ufficiale di Barnabas, Josette DuPres, a lanciarsi dalla scogliera, uccide mamma e papà Collins (simulando un incidente) e costringe Barnabas a vivere da succhiasangue (paffuto e fumettistico, ma pur sempre nonmorto).

Tanta pervicacia non serve a vincere il cuore del rampollo dei Collins, quindi tanto vale rinchiuderlo in una bara perché valuti la situazione e cambi idea. Una meditazione che dura quasi duecento anni, finché Barnabas non rivede la luce grazie a (poco poetici) lavori di manutenzione stradale.

Il resto della storia parte da questo risveglio. Barnabas torna alla casa paterna, intenzionato a ricostruire la fortuna dei Collins ed a riabilitarne il prestigio. Inutile dire che la strega Angelique è ancora viva, vendicativa, non corrisposta e parecchio incattivita dall’apparire improvviso della rediviva Josette, che non è lei, ma un’altra che le assomiglia (come Winona Ryder, sempre simil-reincarnata nel Dracula di Coppola). E’ Victoria Winters, la reincarnazione predestinata (la Bella Heathcote che abbiamo appena visto recitare per Andrew Niccol, nell’In time del 2011). Ha risposto ad un annuncio come governante del piccolo e strambo rampollo dei Collins del XX secolo (stesso espediente narrativo che apre le danze di The Innocent, Jack Clayton 1961). Victoria è una donna in fuga, lo si intuisce facilmente (anche se le motivazioni della fuga arriveranno parecchio più avanti nella storia). Abbigliata anni ’60, capello anni ’60…manca la sosta in motel per fare una doccia ed ecco rivivere lo Psycho di Hitchcock (1960).

Persino il maggiordomo che le apre i portoni della magione rimanda al Riff Raff di The Rocky Horror Picture Show (Jim Sharman, 1975). Trovata piacevolissima (ho sempre adorato il TRHPS!).

Colllins Wood Manor, poi, sembra il materializzarsi delle architetture descritte nel romanzo La casa degli invasati di shirley jackson (1959), con le sue guglie ed i suoi passaggi segreti (mentre le statue spettrali – e semoventi – e gli animali intagliati e grotteschi, rimandano a Nightmare Before Christmas, creatura dello stesso Burton e datata 1993).

E quale padrona di casa avrebbe potuto meglio interpretare la madre moderna di una famiglia in rovina per colpa della stregonerie, se non Michelle Pfeiffer? E’ lei la predestinata. Già solo per i suoi trascorsi da strega (in altrettanta magione) in Le streghe di Eastwick (George Miller, 1987). Peccato per l’assenza di Cher e della Sarandon.

I riferimenti e le citazioni si susseguono senza soluzione di continuità. La storia sembra nient’altro che un pretesto divertente per rimettere in gioco frammenti di cinema horror disseminati nel tempo e mai dimenticati.
Da Angelique la strega che prima vomita verde e abbondante (come la Regan di L’esorcista di William Friedkin, 1973) e poi perde i pezzi (vagamente disarticolata), come hanno già fatto Meryl Streep e Goldie Hawn nel finale di La morte ti fa bella di Robert Zemeckis (1992). Per non parlare della Pfeiffer armata di fucile (e non proprio precisissima nella mira) che richiama la Kidman (altrettanto armata) di The others (Alejandro Amenábar, 2001).

Infilata forzosamente (perché davvero svincolata dal plot) la scena in cui la giovane Carolyn Stoddard, figlia dell’ultima (vivente) dei Collins (la Chloë Moretz che si è fatta conoscere per la sua parte nel remake di Amityville Horror, Andrew Douglas, 2005) si trasforma in un lupomannaro. Non c’entra davvero niente, ma non poteva mancare una citazione al volo di I Was a Teenage Werewolf, diertto da Gene Fowler Jr. nel 1957 (citazione valida anche se proditoria).

Come non menzionare (last but not least) Helena Bonham Carter, visto che ormai fa coppia fissa con Depp (dopo la defezione della Ryder), nell’immaginario di Burton? Era diretta da lui ne Il pianeta delle scimmie (2001), in Big Fish (2003), in La fabbrica di cioccolato (2005), ne La sposa cadavere del 2005 (come voce), in Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street del 2007 e in Alice in Wonderland del 2010. Certo, ha una parte marginale (quella della psichiatra alcolizzata), ma c’è.

Non passano inosservati nemmeno i giocattoli di una volta: dalla bicicletta col sellino a banana, ai cartoni di Scooby-Doo, all’allegro chirurgo (e cito anche la “lava lamp”, che non era un giocattolo, ma un accessorio decisamente anni ’60).

Meno divertente (forse perché tutt’altro che subliminale) il product placement dei marchi Shell Oil Company o Wolksvagen. Decisamente divertente, invece, quello pro (o ai danni?) di McDonald’s, laddove la M gialla sta, ovviamente, per Mefistofele.

Che dire. Ho riso e mi sono divertita a cercare citazioni e rimandi, scavando nella memoria e recuperando frammenti della mia stessa infanzia (con tutto che io e Burton non siamo affatto coetanei).
La storia va da sé. Depp ha una mimica ironica impareggiabile (è quella che ha già sfoggiato nei Pirati dei Caraibi della Disney) ed il finale chiude il cerchio dell’autoreferenzialità, riportando lo sguardo su Burton e su La sposa cadavere, diretto nel 2005, in compagnia del regista Mike Johnson.

In film da vedere? SI.

Author: Mafalda Laratta

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2 Comments

  1. Come si capisce anche dalla recensione, non c’è nulla di originale. peraltro, non c’è neanche nulla di divertente. noioso forte.

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    • “come si capisce anche dalla recensione”…quale recensione?
      Non la mia. A me è piaciuto e lo consiglio ai fan di Burton.
      Ho riso molto (e non mi capitava dai tempi di Mars Attacks).
      Magari mi è piaciuto già solo perché il film l’ho visto.

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