Mickey & Mallory
Assassini nati, (1994), regia di Oliver Stone.
“I media li hanno creati”: una coppia di (serial) killer, culto degli anni ’90. Ecco cosa succede quando l’horror si fa “sit-com”…
I giovani Mickey (Woody Harrelson) e Mallory Knox (Juliette Lewis) uccidono senza ragione cinquantatré persone prima di essere catturati dalla polizia.
Il cinico “reporter” televisivo Dwight McClusky (Robert Downey jr.), alla ricerca di uno “scoop”, finisce col favorire l’evasione dei due e la rivolta del carcere in cui si trovano: lui finirà immolato davanti alla videocamera, mentre i due assassini, tornati in libertà, ricominciano ad uccidere.
Oliver Stone è partito da un soggetto di Quentin Tarantino per girare, a suo dire, una “satira totalmente surreale”, che cerca di colpire lo spettatore più col ritmo frastornante e la deformazione caricaturale che non con la violenza esplicita (nei momenti più splatter, compaiono immagini d’animazione). Con dichiarato cinismo, Stone fa diventare eroi i due killer, al confronto dei quali i veri mostri sono giornalisti e poliziotti. Ma più che una “facile” satira dei media e della televisione-verità, Assassini nati è un film girato come la televisione: un enorme videoclip dove l’inquadratura, il colore e il tipo di pellicola cambiano continuamente. Tra geniali tocchi di humour nero (l’infanzia di Mallory narrata come in una sit-com perversa, con tanto di risate pre-registrate) e banalità didascaliche (l’episodio in cui i due killer si confrontano con la saggezza del vecchio indiano), il film si distrugge e si autonega da sé. Ma è anche un tentativo coraggioso di restare al passo con la realtà e di non ripercorrere il già noto.
La fondamentale colonna sonora, che assembla in contrappunto spesso sarcastico vent’anni di musica americana (da Leonard Cohen a Patti Smith, dai Jane’s Addiction ai Pearl Jam) è curata da Trent Reznor.
La violenza esiste, ma i media (soprattutto quelli visivi) la amplificano ad un punto tale da esaltarla sino a farne un modello di vita, un mito in cui identificarsi anche senza necessariamente abbracciarla e praticarla nella quotidianità.
Uno assassino inveterato gode della stessa popolarità di una star del cinema, incarna un mito di diversità, di eccezionalità che facilmente può diventare mito di superiorità rispetto all’anonimato del pubblico. I media non “mediano” affatto tra l’evento e il pubblico attraverso la comunicazione della notizia, ma al contrario ne diventano i “creatori”.
Una cosa è il mito, la leggenda, e una cosa la realtà.
Non è più possibile una netta, precisa distinzione fra racconto e realtà.
E’ tutta qui la questione della supposta “mancanza di valori” che caratterizza il mondo contemporaneo: non una realtà che si muove troppo in fretta, ma una realtà che non è più reale.
La morte in diretta, lo sterminio per fame, peste o repressione militare, pronti per noi, filmati da una troupe altamente professionale che registra le sofferenze a nostro uso e consumo. Identificandosi con le macchine che essi manovrano. La realtà non è più reale, è immagine, dunque fantasia, racconto, distanza.
Il film è costellato d’immagini violente, pericolose, infide. Esso si apre con quella di un lupo, poi di un serpente a sonagli, continuando di li a poco con uno scorpione (tatuato anche sul ventre di Mallory). Questo sottolinea la sostanziale identità del mondo morale dei due protagonisti con quello animale.
I protagonisti sono solo animali da preda, crudeli e gratuiti.
I personaggi, come quelli dell’American Psycho di Breat Easton Ellis, non sono caratteri, ma agglomerati di superfici visive che schizzano su ogni supporto disponibile. Oliver Stone ha trovato un nuovo tema per la sua requisitoria sul sogno americano trasformatosi in incubo.
L’omicida seriale non è più un maniaco da eliminare, bensì il casus belli di una società cronicamente malata; i giornali trasformano uno dei mille omicidi quotidiani d’America in un talk show che batte tutti i record d’ascolto (il caso di O. J. Simpson: Stone è riuscito a inserire anche questo sia pure a pochi giorni dall’uscita del film.
Con prevedibile rovesciamento di prospettiva Assassini nati, presenta la seguente morale: i veri criminali sono i media.
Il montaggio anarchico, l’angolazione sbilenca delle inquadrature e l’ossessivo inserimento di immagini filmate sui fondali delle scene “reali” sembrerebbe prestarsi benissimo a descrivere le fasi dell’odissea di Michey e Mallory verso l’inferno.
La frenetica ricerca della saturazione visiva, apoteosi del montaggio paranoico include immagini forti quali quelle di Hitler, Stalin, Il mucchio selvaggio e Midnight Express.
Il giornalista del programma Tv “American Maniacs” inebriato fino al parossismo dal piacere di maneggiare un’arma da fuoco, presenta fortissime affinità con l’aspirante scrittore di Kalifornia: in entrambi i casi un’intellettuale molle riceve da un serial killer una frustata di tonicità.
Se Michey e Mallory sopravvivono, è perché sanno rapidamente adattarsi alle patologie del sistema.