American Psycho

Trasposizione lucida, realistica, letterale della verve assassina scatenata (letterariamente) da Ellis. Delirio, delitto ed apatia di un giovane yuppie che non ha più niente da chiedere (niente da perdere…).
Il romanzo omonimo di  Bret Easton Ellis aveva già infranto nel 1991 (e per sempre) le ultime resistenze della censura e della moralità: nel 2000, “American Psycho”, diretto da Mary Harron rappresenta un punto di svolta (interessantissimo) nel cinema horror del terzo millennio.

Metodico, lucido, realistico, prevedibile, condivisibile: Patrick Bateman rivela l’identità nascosta (e temuta) dello yuppismo anni ’90.

Dietro alla maschera della perfezione, dell’eleganza e del buon gusto si nasconde (e neanche tanto) la frustrazione feroce di un’alta borghesia che, arrivata all’apice del successo e del potere, non ha che da ripiegare su se stessa e marcire.
Come polvere rancida, negli interstizi di un lussuoso appartamento newyorchese, Patrick Bateman rappresenta l’infetta metamorfosi di una generazione (rampante) modellata su canoni sociali e comportamentali troppo lontani dalla realtà quotidiana per essere normali.

“Avere è essere”, a scapito della propria umanità.

Il concetto era già chiaro in “Fight Club”, diretto da David Fincher nel 1999: inculturazione, omologazione, alienazione. Perdere per sempre l’appartenenza ad una dimensione umana (e naturale) implica lo snaturamento, la patologia, l’aberrazione. E’ così che, per rispondere a quegli insaziabili e prepotenti istinti primordiali che non trovano giustificazione e sbocco in una società falsa e plastificata, il più “debole” e “vivo” si fa “mostro”, carnefice, “giustiziere” dei propri simili (tutti uguali, intercambiabili, superflui).

Il modello “Bateman”, individuo (apparentemente) invidiabile ed appetibile, partorito dalla gravida genialità di Ellis torna a nuova vita sul grande schermo e riacquista profondità: alle descrizioni meticolose (fino ed oltre la paranoia) risponde la necessità di riportare (in immagini) una malvagità che colpiva ed inquietava già allo stato “letterario”.

Alternanza inquietante di paranoica normalità e metodica psicopatia…

La regista Mary Harron (dopo una gavetta televisiva ed il lungometraggio, “Ho sparato a Andy Warhol” del 1995) si appropria della dimensione “Ellis” e ricostruisce l’atmosfera iperrealista e morbosa del romanzo.

Il Patrick Bateman cinematografico (il Christian Bale di “Velvet Goldmine”, diretto da Todd Haynes nel 1998) fa rivivere “gesta” e frustrazioni un po’ trash: la scena in cui rincorre nudo una vittima brandendo una sega elettrica rimanda alla ben nota sequenza di “Non aprite quella porta”, diretto da Tobe Hooper nel 1974 (il riferimento ritorna in video a casa di Bateman) mentre la verve infantile e sadica ricorda quella di Abel Ferrara (nelle vesti di Reno Miller), attore protagonista del suo “Driller Killer” (1979).

La Harron imbastisce pure un “omaggio” alle architetture claustrofobiche e asetticamente folli de’ “Il demone sotto la pelle” cronenberghiano, universo isolato e perfetto, fulcro e fucina d’ira incontrollabile ed incompatibilità sociale.

Ritornano alla mente (con tetra nostalgia) le note dei grandi del pop anni ’80: Bateman adora la musica e non si esime da lunghe elucubrazioni critiche sui successi di Phil Collins, Huey Lewis and the News, e altri (alcuni sono inseriti nella colonna sonora).

Interessante il cast: una breve apparizione di Willem Dafoe, il commissario chiamato ad indagare sul primo omicidio firmato Bateman (un ruolo un po’ superfluo, a dirla tutta) e la Chloe Sevigny di “Boys don’t cry” (diretto da Kimberly Peirce nel 1999), nelle vesti della segretaria Jean (unica donna immune al virus Bateman).
Non resta che andare al cinema, stare attenti a non lasciarsi risucchiare nel mondo patinato ed alienato di Bateman (illusione di realtà veramente ipnotica) e godersi i virtuosismi di uno “sparachiodi”…

Author: Mafalda Laratta

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