John Doe
Seven (1995), regia di David Fincher.
La vita moderna come selva oscura e tetra, popolata da loschi e mediocri demoni danteschi, l’esaltazione della tortura come unico rimedio all’abominio del vivere: la via per la purificazione passa attraverso lo strazio della carne.
Due detective, il giovane e spavaldo Mills (Brad Pitt) e l’anziano e disilluso Somerset (Morgan Freeman), danno la caccia a un “serial killer” (Kevin Spacey) che, in base ai sette peccati capitali, intende eliminare gli elementi corrotti della società, inventando esecuzioni ingegnose e orripilanti.
Fincher mette in scena la sceneggiatura di Andrew Kevin Walker, chiaro rimando a “L’abominevole dottor Phibes”, diretto da Robert Fuest nel 1971 (Orribilmente sfigurato nell’incidente in cui è morta anche la moglie Phibes uccide i medici che non sono riusciti a salvarla, ispirandosi alle sette piaghe d’Egitto).
Se Kathryn Bigelow ambienta per intero “Strange Days” (1995) il 31 dicembre del 1999, David Fincher rimanda continuamente al passato, alla “Divina Commedia” di Alighieri ed ai “Racconti di Canterbury” di Chaucer, ad esempi di letteratura cristiana, cioè, che trattano delle orribili colpe dell’umanità e delle altrettante orribili punizioni che le vengono inflitte, ad espiazione dei suoi peccati.
La natura allegorica di “Seven” è evidente e riconoscibile: il “serial killer” John Doe, è un americano qualunque, come il Mario Rossi italiano, la coppia di investigatori è lo stereotipo del detective urbano della letteratura e del cinema “noir”.
Solo quando Morgan Freeman afferma: “Hemingway ha detto che il mondo è meraviglioso e vale la pena di lottare in suo nome; sono d’accordo solo con la seconda parte”, l’inquietante nichilismo del film sembra attenuarsi.
Somerset, l’investigatore esperto, alle soglie della pensione, disilluso e disgustato, sceglie di chiudersi al mondo, in istintiva difesa dagli orrori della società; Mills, il giovane ispettore ingenuo ed avventato, appena arrivato in città, è invece sorretto dalla ferma convinzione che azione ed ottimismo siano sufficienti a rimettere in ordine il mondo.
Lo psicopatico Doe, poi, rappresenta una sorta d’iperbole mefistofelica delle loro inclinazioni: la sfiducia nell’umanità e il palese disprezzo della sua violenza di Somerset, come l’aggressività di Mills.
Nello stesso tempo, il rapporto tra i due poliziotti si configura come un viaggio iniziatico nella “selva oscura” della metropoli, città senza volto, crogiolo di vizi e di corruzione, livida e decadente.
Neanche in “Blade Runner” diretto da Ridley Scott nel 1982, si è vista una metropoli così buia, eternamente spazzata dalla pioggia e percorsa da apocalittici segnali di morte.
Continua il labirintico viaggio nel mondo oscuro e claustrofobico sgorgato dall’immaginario di David Fincher…
Sette i giorni della settimana, sette i peccati capitali, ma non c’è un omicidio al giorno, non tutti i predestinati muoiono, alcuni decidono di togliersi la vita, e di fatto il “serial killer” non uccide nessuno di propria mano.
In “Seven”, il Mostro non è più solo il serial killer, ma la razionalità che lo ha generato, così come gli agenti che tentano di catturarlo, non sono più soltanto gli “eroi” della storia, ma esegeti dell’orrore.
La loro funzione di “detective” si confonde con quella del critico d’arte; il crimine perde i connotati dell’evento sovversivo e patologico per acquisire quelli del fenomeno estetico, dell’happening che ha come oggetto il corpo mutilato, decomposto (La canzone “The Heart’s Filthy Lesson” sui titoli di coda fa parte di Outside, una raccolta di canzoni scritte da David Bowie sull’impiego dei cadaveri come sculture concettuali. Il testo che l’accompagna è significativamente ambientato in un immaginario “Museum of Modern Parts”, cruenta variazione di Museum of Modern Art).
L’assassino, poi, vuole essere catturato, per poter concludere la propria missione e diventare perciò immortale. Doe, infatti, uccide la moglie di Mills (ed il bambino che porta in grembo) costringendo il detective, pazzo di dolore e di rabbia, ad ucciderlo a sua volta. Il serial killer, che invidiava la tranquilla vita familiare di Mills, ha così purificato il suo peccato, mentre l’investigatore, uccidendolo, ha distrutto definitivamente la sua vita.
John Doe è, così, un altro “serial killer” dello splatterpunk cinematografico, privo d’identità e figlio di una società perversa ed indifferente.
Gli abitanti della metropoli oscura, rappresentata da Fincher, vivono nell’apatia più assoluta, completamente indifferenti alla violenza che li circonda, all’abominio dei cadaveri martoriati da John Doe.
La sequenza che descrive l’assassinio corrispondente al peccato della lussuria, poi, ambientata in uno squallido e buio cinema porno, con la prostituta sventrata da un fallo metallico appositamente progettato da Doe, richiamando alla mente il sadismo perverso degli “snuff movie”, ricalca quell’interpretazione abominevole del sesso che è tipica dello splatterpunk.
Splatterpunk è l’ambientazione metropolitana popolata da reietti ed emarginati: l’obeso, lo spacciatore, la prostituta, il losco proprietario del cinema porno, completamente indifferente alle depravazioni che avvengono nel suo locale, l’”artista” che ha scolpito il fallo di metallo e che vive realizzando costumi sado-maso.
“Seven” rappresenta una visione desolante del mondo e del genere umano, mal celando un’aspra critica all’annientamento dei valori morali, all’indifferenza e alla violenza della società moderna.